“Furbetti cosmopoliti”

Subito dopo che la FIAT si era rimangiata gli impegni assunti circa “Fabbrica Italia” il sig. Diego Della Valle ha rilasciato ieri alcune dichiarazioni. Tra quelle riportate tra virgolette dalla stampa si sono potute leggere, tra l’altro, le seguenti.
Continua questo ridicolo e purtroppo tragico teatrino degli annunci ad effetto da parte della Fiat, del suo inadeguato amministratore delegato e in subordine del presidente. Assistiamo infatti da alcuni anni a frequentissime conferenze stampa nelle quali, da parte di questi signori, viene detto tutto e poi il contrario di tutto, purché sia garantito l’effetto mediatico, che sembra essere la cosa più importante da ottenere, al di là della qualità e della coerenza delle cose che si dicono”. “Con il comunicato rilasciato ai giornalisti oggi, Marchionne & company hanno superato ogni aspettativa riuscendo, con alcune righe, a cancellare importanti impegni che avevano preso nelle sedi opportune nei confronti dei loro dipendenti, del governo e quindi del paese. Ma si rendono conto questi supponenti signori dello stato d’animo che possono avere oggi le migliaia di lavoratori della Fiat e i loro familiari di fronte alle pesanti parole da loro pronunciate e alle prospettive che queste fanno presagire? Il vero problema della Fiat non sono i lavoratori, l’Italia o la crisi (che sicuramente esiste): il vero problema sono i suoi azionisti di riferimento e il suo Amministratore Delegato. Sono loro che stanno facendo le scelte sbagliate o, peggio ancora, le scelte più convenienti per loro e i loro obiettivi, senza minimamente curarsi degli interessi e delle necessità del Paese. Paese che alla Fiat ha dato tanto, tantissimo, sicuramente troppo. Pertanto non cerchino nessun capro espiatorio, perché sarà solo loro la responsabilità di quello che faranno e di tutte le conseguenze che ne deriveranno. È bene comunque che questi ‘furbetti cosmopoliti’ sappiano che gli imprenditori italiani seri, che vivono veramente di concorrenza e competitività, che rispettano i propri lavoratori e sono orgogliosi di essere italiani, non vogliono in nessun modo essere accomunati a persone come loro“.
Non nutro alcuna particolare simpatia nei confronti del sig. Diego Della Valle, tuttavia nel caso concreto lo apprezzo per aver voluto affermare, senza infingimenti o tortuose diplomazie opportunistiche, ciò che molti pensano. Impeccabile la sua definizione di furbetti cosmopoliti. Il cosmopolitismo di oggi, quel che a buona parte della c.d. “sinistra” un inveterato pregiudizio impedisce di riconoscere, è solitamente l’anticamera ideologica del mondialismo, con quel che ne consegue: il cosmopolita è apolide, dunque non si riconosce in alcuna patria o radice – comunque la si voglia identificare – ma, al più spesso, nella trista idolatria del denaro.
Pare di assoluta evidenza, del resto, che di un tale fenomeno gli Elkann e il Marchionne siano esponenti per definizione.
Fa piacere che sia un industriale, nel paese del quale i montezemoli, le mercegaglie e i marchionni raffigurano la parte peggiore, a strappare vergognosi veli, vista anche la prona adesione che sedicenti “sindacalisti” si scapicollarono a offrire ai programmi FIAT sottoscrivendo accordi al di là di ogni umana decenza. Per tacere dei politicanti dello stampo dei chiamparini, dei fassini, dei renzini che se ne infervorarono. Con quelli, adesso, come la mettiamo?
MS

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Solita provocazione infame

Non bisognerebbe essere così allocchi da abboccare alla storiella per cui un illustre Signor Nessuno avrebbe concepito, prodotto e diffuso in anteprima, con accorta scelta di tempo, il cosiddetto “film” The Innocence of Muslims.
Credo che sull’argomento ci si possa aspettare ancora un mucchio di balle, di versioni contrastanti e contraddittorie, di notizie smentite e rivangate, di scoperte spacciate per straordinarie e poi destiuite di fondamento, e così via. Si chiama “disinformazione” trasposizione dal russo Дезинформация, ed è una tecnica sperimentata che adottano i propalatori professionali di menzogne, di manipolazioni, di creazioni artefatte di “opinione pubblica” su detrerminati oggetti.
Chi sia dietro una tale manovra, quindi dietro anche al “film” che ha fatto da innesco, mettendo in ridicolo il Profeta, non è dato sapere con prove provate ma nemmeno abbisogna porsi la classica domanda cui prodest? per intuire di chi si tratti.
L’effetto immediato, infatti, è stato quello di scatenare un putiferio presso gli ambienti mussulmani più intransigenti, oltre che le vibrate proteste di quelli meno esagitati. Le conseguenze si vedranno, ma l’esperienza insegna che potrebbe sprigionarsi una reazione a catena, che assai interessate manine potrebbero essere pronte a spacciare come il solito “estremismo islamico”.
Non sarebbe un’impresa difficile, volendo, schernire qualunque altra religione, in particolare ebraismo/giudaismo e cristianesimo nelle sue diverse confessioni settarie: basterebbe rifarsi a significativi elementi della loro storia, dei loro testi sacri, di certe loro tradizioni, di determinati riti e culti ancora in pratica. Ma, per esempio, quando pochi anni fa venne dato alle stampe il “Trattato dei tre impostori – Mosè, Gesù, Maometto”, pochi ne parlarono e nulla accadde. In altre occasioni, invece, mezzi di comunicazione eterodiretti pomparono dal nulla autentici “casi”, con impatti molto pesanti. Su cosa scommettono, in quei “casi”, i divulgatori di spazzatura mediatica criminale? Come in quello attuale, si fa scientificamente leva su una sensibilità ipertrofica che caratterizza certe fasce di “credenti” e che certamente è diffusa in ambito islamico – anche se centinaia di milioni di mussulmani ne sono estranei.
Si tratta dunque di turpi provocazioni freddamente progettate per suscitare il massimo dello scompiglio, nel torbido del quale poter poi pescare con un certo agio criminale.
Ma anche volendo fare astrazione da tali scopi infami, già nel metodo fa qui spicco un elemento assai rilevante. Gli assertori di una democrazia fasulla, di una libertà fasulla e di una fasulla libertà d’espressione, i.e. della cosiddetta “società aperta” del cazzo, si fanno uscire le emorroidi nello sforzo di accreditare anche i becerismi più spregevoli come “libertà di parola”, che in  base al loro universalismo suprematista dovrebbe essere accettata, in quanto tale tale, da tutti gli altri. Tradiscono così il proprio inveterato razzismo, dappoiché in un regime di tolleranza autentica è la sensibilità ancorché soggettiva di chi ritiene di ricevere un’offesa, e non quella di chi l’arreca, a prevalere nel pur indispensabile equilibrio dei fattori in gioco. L’universalismo che pretende di essere oggettivo è in realtà solo uno strumento spregevole di oppressione dell’altro da sé. Colonialismo, imperialismo e razzismo se ne nutrono da sempre.
Dulcis in fundo, qualcuno già si è premurato di spiegare, dopo l’assalto al consolato yankee di Bengasi che il problema vero adesso non è più la “crisi” (leggasi: la rapina in corso ai popoli d’Europa da parte della gang Goldman Sachs & Affiliati) ma l’instabilità a due passi da casa nostra. Capito l’antifona?
MS

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Nefasti della “sussidiarietà”

Su un quotidiano torinese scrive quattro giorni fa Luca Ricolfi, personaggio che non amo, che il prezzo di favore dell’energia elettrica accordato dai politicanti all’impresa globale yankee Alcoa, pagato in bolletta dai cittadini italiani, secondo un rozzo calcolo sarebbe costato negli ultimi quindici anni la bazzecola di duecentomila euro all’anno per ogni posto di lavoro “salvato”.
A margine della notizia faccio notare che a capo di Alcoa Inc. (Aluminum Company of America) dal maggio 2008 è tal Klaus Kleinfeld, che guarda guarda dal maggio 2010 è anche componente dello Steering Committee del famigerato Gruppo Bilderberg. Mica si conoscerà personalmente col bocconaro, per caso?
Del calcolo effettuato la responsabilità resta al Ricolfi. Esso comunque, al di là dell’esattezza dei numeri, testimonia icasticamente di un fatto ben preciso. Per gli assertori della cosiddetta “sussidiarietà orizzontale” nell’accezione artatamente distorta per cui tutto ciò che un privato potrebbe fare non deve farlo lo Stato, la privatizzazione delle imprese è un imprescindibile feticcio. Non così quella delle relative perdite, che naturaliter vanno accollate al pubblico, cioè ai cittadini pagatori d’imposte, di modo che i padroni o azionisti delle imprese e gli alti dirigenti di queste possano comunque arricchirsi anche se del tutto inetti – e magari corrotti. Dunque, siccome non ci vuole Einstein per capire che a un costo ben inferiore a duecentomila euro all’anno qualunque impresa pubblica onestamente gestita avrebbe potuto utilmente impiegare i lavoratori “salvati” senza distribuire profitti a pescecani stranieri, e magari guadagnandoci qualcosina a beneficio del pubblico, ne deriva  – esemplarmente -che la “sussidiarietà orizzontale” praticata dai politicanti italiani ha procurato allo Stato e quindi a tutti i cittadini un grave danno ingiusto, e ai prenditori di Alcoa un ingiusto grande profitto. Coi lavoratori dell’Alcoa di Portovesme che oggi, per finire, restano a piedi.
Ecco la “sussidiarietà” che piace ai politicanti asserviti alle imprese.  Un asservimento che può render conto del  tenore di vita di costoro. Ne risponderanno, un giorno, coi loro non certo esigui beni e con appropriate severe punizioni?
MS

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Se scrivono “populismo” si deve leggere “democrazia” (3)

È evidente che le forme odierne non potranno essere identiche a quelle. L’esistenza di una rete globale diffusa che ha pregi e difetti, vantaggi e rischi, non credo si possa considerare la soluzione organizzativa assoluta, ma se opportunamente orientata (vedi per esempio l’interessante invenzione della piattaforma LiquidFeedback per la democrazia interattiva) la rete può evolversi dallo stato di risorsa teorica della democrazia diffusa a una condizione di strumento fruibile in concreto – senza eccessivi rischi di manipolazioni e di equivoci relazionali. Ciò anche nella promozione di una conoscenza condivisa al di là della comunicazione di regime: “Bisogna conoscere per deliberare“, scriveva argutamente Luigi Einaudi. E il regime tutto vorrebbe, tranne che il popolo pervenga a conoscere i fatti veri, traendone logiche conseguenze. Perché, come si dibatteva all’epoca di Cromwell nelle assemblee soldatesche del New Model Army, “Un uomo non è vincolato da un sistema di governo che non ha dato mano a porre sopra di sé“.
Oggi, nel concreto, l’avanzamento della democrazia nelle forme proposte dal MoVimento 5 Stelle che sono tutto sommato abbastanza moderate (tra l’altro: referendum propositivi senza quorum, elezione diretta del candidato, obbligo della discussione parlamentare su iniziative di legge popolare in parlamento con voto palese) già terrorizza le lobby e i comitati d’affari di ogni genere, la stampa scritta e visiva manipolatrice delle notizie e orientatrice di false coscienze, gli spacciatori di gossip e di soap opera devastatori di cervelli ingenui; tutti elementi che già si vedono franare sotto i piedi il terreno sul quale hanno sistematicamente costruito un’enorme truffa. Forse vuol dire che la strada è giusta.
Ma di più. L’instaurazione di una democrazia pura in luogo del suo ingannevole simulacro sarebbe il progetto rivoluzionario più importante in assoluto del quale il MoVimento 5 Stelle potrebbe farsi oggi assertore: quel che veramente fa paura ai “soci vitalizi del potere” come li definiva la canzone di De André, e che essi cercheranno con ogni mezzo di impedire. Ma è una delle poche speranze rimaste, oltre c’è la disperazione. Non lasciamoci sfuggire questa occasione, o almeno combattiamo fino in fondo. Cos’abbiamo da perdere, oltre alle nostre metaforiche – e ormai non più tanto metaforiche – catene?
Non bisogna dunque abboccare alle trappole semantiche. Dove i bugiardi, politicanti e prenditori della casta, pennivendoli di regime, prostituti e lacchè, oggi dicono o scrivono “populismo”, automaticamente si dovrebbe intendere “democrazia”. Come acutamente osservava Stokely Carmichael, uno dei principali teorici del Black Power, quando lo schiavo inizia a rifiutare le definizioni dei suoi padroni, comincia a liberarsi.
MS
(fine – la prima e la seconda parte sono di oggi 14 settembre 2012)

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Se scrivono “populismo” si deve leggere “democrazia” (2)

La democrazia, senza aggettivi, è “diretta” per definizione. Nel rappresentativismo del quale essa è assoluto contraltare, tipicamente allignano gli affari, le lobby, i traffici inconfessati, le clientele organizzate; in ultima analisi incuba la corruzione dei “rappresentanti” stessi ognuno dei quali, significativamente, nel caso italiano “esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” (art. 67 Cost.). La riduzione del numero dei parlamentari, predicata da elementi del regime, è dunque una duplice presa per il culo: in quanto artifizio per indurre in distrazione e sviare così l’ira diffusa del popolo nei confronti della casta e in quanto progetto oligarchico di concentrazione in un numero ancor più esiguo di soggetti di un tale potere discrezionale, senza obbligo di rendiconti nel merito né di pubblicità reale delle azioni effettuate. Viceversa sarebbe nell’aumento del numero di coloro che temporaneamente possano essere delegati a realizzare le istanze popolari che potrebbe determinarsi una maggiore prossimità dei delegati ai deleganti e dunque un più efficace controllo, con la permanente possibilità di revoca della delega stessa: ciò si inscriverebbe nella c.d. sussidiarietà verticale laddove, a totale differenza che in quella “orizzontale” di attribuzione a privati delle attività di pubblico interesse, si tende a distribuire il potere decisionale verso il basso, delocalizzandolo ai territori – vedi gli interessanti spunti sviluppati a suo tempo da Richard Herny Tawney sulla proprietà pubblica decentrata (pubblico locale).
Posto poi che debba sussistere un “potere esecutivo” (che in senso stretto e letterale potrebbe anche starci), è ancora Rousseau ne Il contratto sociale (libro terzo, capitolo 18) a osservare che “les dépositaires de la puissance exécutive ne son point les maître du peuple, mais ses officiers; qu’il peut les établir et les destituer quand il lui plaît” (I depositari del potere esecutivo non sono i padroni del popolo, bensì i suoi funzionari [...]; esso può nominarli o destituirli quando gli piaccia). Nulla di nuovo dunque se qualcuno oggi li definisce, giustamente, “nostri dipendenti”.
Gli esempi fondativi della democrazia senza aggettivi, che vanno beninteso contestualizzati sul piano storico, vengono inter alia dalle assemblee popolari di Sparta e di Atene, dei Germani e dei Celti, di Roma agli albori, dei popoli amerindi (Maya, Inca…) prima della spoliazione coloniale.
MS
(continua – la prima parte è del 14 settembre 2012)

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Se scrivono “populismo” si deve leggere “democrazia” (1)

Un nuovo spettro si aggira per l’Europa, quello del populismo.
Esorcizzato dai valletti dell’usurocrazia mondialista, nella propaganda condotta da mezzi di comunicazione totalmente asserviti il populismo viene identificato come il compendio di tutti i mali, la premessa di tutte le sciagure, la negazione di tutte le libertà. Solo a vedere chi sono i prostituti e lacchè incaricati di una tale campagna già ai più accorti almeno, e a coloro che amano informarsi seriamente, dovrebbero rizzarsi le antenne.
Democrazia e populismo, curiosamente, hanno radici etimologiche parallele. La prima viene dal greco “demos”, parola che indicava la popolazione di un’entità politicamente autonoma come la città-Stato, e ancora prima le unità politiche di base nelle quali era suddivisa l’Attica. La seconda, essendo derivazione di “popolo”, viene dal latino “populus”, termine che designava, tra l’altro, la comunità politica omogenea costitutiva dello Stato.
La democrazia senza aggettivi è quella radicale, storica, tradizionale, che nulla ha a che vedere col parlamentarismo rappresentativo. Quest’ultimo ha usurpato il nome di democrazia rivestendosi anzi dell’ossimoro di “democrazia liberale”, cioè di una caricatura oscena della democrazia ,a copertura ideologica del capitale e dei suoi interessi: non la libertà di decidere ma la libertà di “scegliere”, ogni tanto e con regole manipolate a comodo, chi dovrà realmente decidere. Come scriveva l’ottimo Rousseau ne Il contratto sociale ( libro terzo, capitolo 15): “Le peuple anglais pense être libre, il se trompe fort; il ne l’est que durant l’élection des membres du parlement: sitôt qu’ils sont élus, il est esclave, il n’est rien” (Il popolo inglese pensa di essere libero, ma si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento: appena quelli sono eletti, è schiavo, non è nulla). E ancora (ibidem): “Quoi qu’il en soit, à l’instant qu’un peuple se donne des représentants, il n’est plus libre; il n’est plus” (Comunque sia, nel momento in cui un popolo si dà dei rappresentanti, non è più libero; non esiste più).
Chi oggi rivendica il diritto del popolo a deliberare in via diretta del proprio destino viene tacciato di populista proprio dagli imbroglioni che ogni giorno blandiscono quello stesso popolo come maturo per scegliere, libero di scegliere e sovrano nelle sue scelte. La prospettiva esistenziale di costoro è che il popolo, drogato da una comunicazione di stampo orwelliano, resti in catalessi, dato che, come osservava Goethe in Die Wahlverwandtschaften, “Niemand ist mehr Sklave, als der sich für frei hält, ohne es zu sein” (Non c’è peggiore schiavo di colui che non sa di esserlo). L’intimo terrore di costoro, viceversa, è che il popolo, uscendo dalla catalessi, si accorga che il re è nudo e dunque agisca, prendendo il proprio destino in mano per farsene artefice.
MS
(continua)

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Cile – Grecia: altro metodo, stesso scopo

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Da che parte stanno

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Rovina Italia

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