L’unica, autentica e virtuosa privatizzazione dei servizi pubblici consisterebbe nell’autogestione di tali servizi da parte degli utenti con forme di azionariato popolare e diffuso a loro riservato, un po’ come nella (più timida) ipotesi recentemente formulata dal presidente della regione Toscana, che risultino nella costituzione di speciali “public companies”, radicate nel territorio secondo la buona pratica della proprietà decentrata a carattere pubblico così come nella formula di R. H. Tawney. Con delibere assembleari assunte secondo il principio “una testa, un voto”, con possibilità di autofinanziarsi mediante il prestito dei soci così come nelle società cooperative invece che nel circuito insidioso della finanza d’affari. Si tratterebbe di un ottimo esempio di sussidiarietà vera, ispirata alla cooperazione e non invece alla competizione: infatti, fino adesso, non se n’è mai voluto parlare.
Votare “sì” per abrogare la privatizzazione dei servizi pubblici locali “di rilevanza economica” (gestione idrica ma anche rifiuti, trasporti, etc.) non è, tecnicamente, votare affinché sia impedito agli enti locali di affidare tali servizi a privati ove gli enti locali stessi così decidano, ma affinché quei servizi non siano obbligatoriamente devoluti, entro quest’anno, agli squali di un “mercato” che tutto è tranne che “libero”, oppure a società miste con una quota di capitale privato non inferiore al 40% del totale. Più strategicamente, tuttavia, votare “sì” è a mio avviso un segnale chiaro, anche ai criptoprivatizzatori pidisti che sicuramente torneranno ad agitarsi anche qualora il quesito referendario sia approvato: un segnale possibilmente in direzione di innovative modalità gestionali dei servizi pubblici locali, che vedano la partecipazione consapevole dai cittadini-utenti.
Quesito n. 2 (scheda gialla): profitti sulla gestione dell’acqua
Il quesito di questo referendum è in evidente correlazione col precedente, ma di senso specifico ben distinto.
Esso si propone infatti di abrogare la norma relativa alla “adeguatezza della remunerazione del capitale investito” dai gestori dell’acqua, cioè alla “remuneratività” della gestione stessa, applicabile in via astratta anche agli operatori pubblici.
È notevole, e assai emblematico, che i medesimi soggetti usi a riempirsi la bocca di “libero mercato” sostengano qui, accanitamente, che il profitto d’impresa sia garantito per Legge da qualunque rischio. Che esso sia garantito nella misura del 7% in misura minima fissa garantita dallo Stato, o invece stabilita dall’ente pubblico cui compete l’affidamento del relativo servizio (così come nella temporanea “correzione” introdotta a posteriori per intorbidare le acque), nulla cambia. Si conferma infatti, in entrambi i casi, che il “mercato” propugnato dai liberisti non è affatto “libero” come bugiardamente costoro sostengono: libero mercato, profitto assicurato. Col rischio, che per definizione è l’elemento caratterizzante dell’impresa in quanto tale, tutto a carico degli utenti. Particolarmente odioso, poi, è che in questo caso l’applicazione di una tale formula colpisca, tra gli altri ,la gestione di un servizio essenziale alla vita stessa come quello idrico.
Se l’eventuale necessità di coprire i costi, ove non intervenga la fiscalità generale come dovrebbe pur essere nei servizi essenziali, determina la natura “economica” del servizio, il conseguimento di profitti dal capitale investito in tali attività è tutt’altra cosa.
Dalla teoria del “giusto prezzo” nelle versioni di Aristotele, Giustiniano e Tommaso d’Acquino si è infine precipitati nella teoria del “giusto profitto” garantito per Legge in regime di “libero mercato”. Parrebbe uno scherzo, ma non lo è.
MS
(continua – la prima e la seconda parte sono di oggi 12 giugno 2011)