Con una prima mossa, peraltro non ancora portata a totale compimento, il globalismo mercatista ha mirato alla demolizione del modello tipicamente europeo del “Welfare State” onde trasferire al grande capitale (vedi “privatizzazioni”, etc.), e nel più lungo termine a quello di speculazione finanziaria, le ingenti risorse frutto dell’esproprio.
L’apparato propagandistico messo in campo all’uopo, per il lavaggio collettivo del cervello verosimilmente più vasto di tutta la storia umana conosciuta, si è potuto avvalere del controllo quasi incontrastato di mezzi di comunicazione di massa dotati ormai di una formidabile potenza. Ciò ha consentito una manipolazione pianificata e sistemica dell’informazione, attuata in forme anche assai raffinate, fino all’inoculazione di slittamenti semantici pervasivi – per esempio col chiamare “riforme” la manomissione reazionaria delle normative e prerogative sociali, “moderazione” un tale forsennato attacco ai livelli di vita dei popoli e “rivoluzione liberale” l’involuzione socialdarwinista correlata – che è risultata essere un metodo oltremodo efficace di devastazione culturale e di abbrutimento degli spiriti, fino al punto di rendere perpetrabile l’ecumenica rapina in corso con il sostanziale, ancorché viziato, consenso dei rapinati. Il c.d. American Dream (rectius: American Nightmare), per esemplificare, è un ottimo oppiaceo che induce a una rassegnata apatia sociale di massa mediante l’abile coltivazione dell’illusione stessa, come se un mercato “libero” esistesse davvero; dall’altra parte la corruzione morale e materiale di buona parte almeno dei politicanti – spesso ridotti a semplici burattini, legislatori o esecutori – ben completa l’opera.
Con una mossa ulteriore, in pieno svolgimento, il globalismo mercatista ha spinto alla finanziarizzazione interdipendente delle economie primarie, fino ai parossismi apparentemente demenziali che innescarono l’attuale crisi, in un quadro di divisione mondiale del lavoro ove ad alcuni grandi paesi “in via di sviluppo” toccava il ruolo – accettato molto di buon grado – di opifici generali. Perseguire l’obiettivo della rendita finanziaria – senza alcun nesso relazionale tra la ricchezza fittizia così rappresentata e quella effettiva, tangibile, esigibile a livello planetario – riduce il reddito da lavoro, e non solo da lavoro subordinato, a valore essenzialmente residuale: le grandi attività produttive, d’altronde, più non si gestiscono in funzione della prospettiva industriale d’impresa ma sempre più spesso con riguardo ai profitti finanziari che possonsi trarne, per esempio manovrando onde accrescere il valore delle azioni. Esemplare, quasi dieci anni fa, fu il caso Danone, un’impresa globale che realizzava buoni profitti e che per ingrassare ulteriormente gli investitori azionisti attuò una massiccia riduzione del personale: il prezzo del titolo lievitò ma l’impresa fu oggetto di un combattivo boicottaggio globale che intelligentemente molto si avvalse anche della Internet con buon esito.
Il ruolo più deleterio nella dilagante finanza speculativa, però, spetta forse a molti di quei soggetti “istituzionali” (fondi pensione, fondi di investimento, società assicurative, banche d’affari, gestori del risparmio, etc.) i quali, usando denaro non proprio, spesso ricorrono a strategie spregiudicate – sia in quanto all’impatto sociale sia in quanto ai rischi assunti, magari ricorrendo a particolari strumenti operativi – allo scopo di massimizzare nel più breve tempo possibile i profitti e quindi i correlati compensi degli amministratori. Di questa infida galassia Luciano Gallino ha presentato un’interessante panoramica nel suo recente libro “Con i soldi degli altri”, pubblicato da Einaudi nel 2009.
MS
(continua – la prima, la seconda, la terza e la quarta parte sono del 25, del 26, del 27 e del 28 dicembre 2010)
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