Premesso che dal secondo dopoguerra in avanti la politica sindacale in Italia è stata quasi interamente nelle mani della triade CGIL, CISL, UIL, quindi di confederazioni di sindacati strutturate più o meno sull’intero territorio dello Stato e in ogni settore di attività, e che la cristallizzazione di un siffatto triopolio (formatasi in alcuni tratti per esogenesi) integra una distorsione sostanziale della libertà di associazione sindacale, le ragioni della mancata applicazione dell’art. 39 Cost. – ché di questo si tratta – furono molteplici nelle diverse fasi susseguitesi.
Al tempo del collateralismo storico, a una CGIL egemonizzata dall’area socialcomunista si contrappose nel 1948 la CISL (inizialmente denominata LCGIL), a impronta cattolica e con riferimenti nella governativa DC; poi nel 1950 la UIL (per derivazione dalla FIL nata nel 1949), di area laico-centrista con ispirazione alle omologhe forze governative PRI e PSDI. In tal fase, con quelle liaison tra confederazioni sindacali e partiti politici di riferimento, nessuno aveva interesse a realizzare una regolamentazione, dell’attività sindacale in generale e della rappresentanza in particolare, che sarebbe risultata in una maggiore autonomia e unitarietà dell’azione rivendicativa.
Nella seconda metà degli anni ’60 lo spirito del tempo, in particolare la spinta del cosiddetto autunno caldo (1969), ampliò i margini di autonomia e riposizionando CISL e UIL portò all’unità d’azione con l’introduzione dei Consigli di Fabbrica in quanto espressione unitaria della “base”. Nella nuova situazione creatasi, connotata anche da una certa tendenza al pansindacalismo e allo spontaneismo di piazza, non vi erano motivazioni a regolamentare l’attività dei sindacati, che d’altronde esercitavano un ruolo di rappresentanza soprattutto sotto l’impulso di un movimento che stentavano a governare con la propria organizzazione tradizionale: come avrebbe potuto un fenomeno generalizzato di lotta farsi ingabbiare in un sistema di norme predefinite? Nemmeno con lo “Statuto dei Lavoratori” del 1970, infatti, la materia fu oggetto di legislazione.
Qualche anno dopo l’approssimarsi del PCI all’area di governo, informando la CGIL di una moderazione evidente (Conferenza dell’EUR del 1978), mostrò che il vecchio collateralismo non era ancora morto. Così pure, ma con tutt’altre posizioni, in occasione del referendum del 1985 sulla scala mobile, che vide l’isolamento della CGIL schierata insieme al PCI. Nel frattempo infatti l’evoluzione del quadro politico e la svolta segnata dalla sconfitta sindacale nella vertenza FIAT del 1980 avevano ricondotto CISL e UIL a una linea socialmente più collaborativa.
Anche allora non emerse alcuna spinta all’attuazione dell’art. 39 Cost.: nessuna delle forze politiche ne aveva l’interesse mentre le confederazioni sindacali, nella permanente transitorietà dei rapporti correnti tra loro, non intesero darsene carico: nessuna desiderava contrassegnare con una misura della rappresentanza rispettiva, e dunque a formalizzare, i ricorrenti piani di frattura.
Si poté così mantenere, nonostante la sistematica decostruzione delle federazioni unitarie di categoria, una certa unità d’azione, che condusse all’accordo interconfederale sulla contrattazione e a quello di poco successivo sulle elezioni delle RSU nei luoghi di lavoro (entrambi del 1993). Quest’ultimo fissava alcune procedure, poi assunte nella contrattazione collettiva nazionale, il cui impianto generale ancora è vigente. Nemmeno in quell’occasione però l’assai più ampia questione del profilo giuridico dei sindacati fu toccata, mentre quella correlata della rappresentanza nella contrattazione restò affidata alla mutevole prassi del quotidiano.
MS
(continua – la prima parte è del 3 settembre 2010)
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